Bikini in poliestere riciclato: sì, no, forse

La rubrica che veste verde di Emma Maiorino @emma.vesteverde

Da qualche giorno è iniziata ufficialmente l’estate, il caldo si è insinuato con arroganza nelle nostre giornate e le fughe balneari sono al primo posto tra i desideri deə più. Insomma è arrivato il momento per ə consumatorə consapevoli di porsi la fatidica domanda: “come scegliere un costume da bagno più sostenibile?”.

Partendo dal presupposto che la scelta migliore sia sempre quella di continuare ad utilizzare ciò che già possediamo, sfruttiamo l’occasione per tentare di fare un po’ di chiarezza sul tema dei costumi in poliestere riciclato.

Col nome poliestere si indica una famiglia di materiali plastici derivanti dal petrolio. Tra questi il PET è il più diffuso e in particolare è protagonista sia nella produzione di fibre tessili sintetiche che di packaging alimentari monouso, tra cui le bottiglie di acqua e altre bevande.

Secondo il “Preferred fiber and materials market report 2021” di Textile Exchange, il poliestere è la fibra più utilizzata al mondo coprendo il 52% della produzione tessile totale. Di questo, il 15% è riciclato (rPET): il 99% proviene dalle bottiglie di PET e solo l’1% rimanente proviene da rifiuti oceanici o tessuti in poliestere di scarto pre-consumo (non vestiti di seconda mano).

Da diversi anni ormai, con l’arrivo della stagione dei bagni, media e vetrine pullulano di campagne pubblicitarie quali “acquista un costume e salva due bottiglie”, “costumi ecologici in rPET”, “bikini amico degli oceani”, “per ogni costume venduto ripuliamo mezza spiaggia”…

Tali slogan rientrano nella sfera del greenwashing (greenwash.com ce ne spiega alcuni), ovvero una pratica di marketing e comunicazione dei brand, dedita all’utilizzo di messaggi ambigui e parole chiave come eco, green, etico, per incentivare l’acquisto di prodotti spacciati per “sostenibili”.

L’allarme anti greenwashing però non è sufficiente a fare luce sulle varie zone d’ombra relative al tanto osannato rPET!

La notizia più recente e scoppiettante riguarda una frode

Un’indagine durata 18 mesi e resa possibile da un’innovativa tipologia di analisi (Nuclear Magnetic Resonance) capace di verificare la percentuale esatta di rPET contenuta nei capi, ha riscontrato che quasi i 2/3 dei vestiti analizzati, che sostengono di contenerlo, mentono. 

Si tratta di una frode che nessuno di noi potrebbe riconoscere facendo shopping e sembra che anche i brand, acquistando tessuti, ne siano caduti vittime.

La quantità di bottiglie usate in giro per il pianeta è indubbiamente alta ma non vale lo stesso per il PET trattato e pronto da riciclare: la domanda cresce esponenzialmente e l’offerta è limitata (a prezzo sempre maggiore), così molti fornitori hanno cominciato a spacciare PET vergine per rPET.

La seconda questione, direttamente correlata alla precedente, riguarda la concorrenza diretta nata tra le industrie dell’imballaggio e dell’abbigliamento per aggiudicarsi le bottiglie riciclabili.

Nella legislazione UE e in altri Paesi, infatti, sono stati inseriti degli obiettivi che richiedono una determinata percentuale di rPET per ciascuna nuova bottiglia in PET e questo ne ha accresciuto ulteriormente la domanda anche per parte dei produttori di imballaggi.

Dobbiamo considerare che il PET delle bottiglie viene prodotto in maniera specifica adatta al settore alimentare: non sarebbe il caso di riciclarlo per nuovi packaging alimentari invece di farci vestiti non più riciclabili?

Citando Silvia Gambi, esperta e giornalista in ambito tessile: la soluzione migliore sarebbe quella di avere un riciclo da bottiglia a bottiglia e un riciclo da vestito a vestito.

È vero che per produrre rPET viene consumata il 59% di energia in meno e si produce meno CO2*, ma essendo stato inadeguatamente promosso per anni come fibra “super sostenibile”, è stata adottata dai brand senza ritegno, spesso come comoda scorciatoia che gli garantisse la coscienza pulita invece di impegnarsi ad usare materiali più nobili. 

Tornando all’allerta greenwashig e ai bikini in rPET, è chiaro che la questione dietro le quinte è molto più complessa di quanto si pensi. 

È anche chiaro che il poliestere riciclato non sia definibile quale fibra sostenibile, bensì un materiale che nella sua versione riciclata, purché usato con criterio e in maniera mirata, possa avere un minor impatto rispetto a quello vergine*.

PET o rPET che sia, questo materiale durerà per decenni e di conseguenza il bikini di cui sarà fatto: scegliamone uno solo, scegliamolo bene, scegliamolo per sempre.

Non facciamoci abbindolare da chi vuole venderci 4 costumi a stagione “sostenibili”, e non dimentichiamo che i costumi in cotone e all’uncinetto sono meravigliosi!!

*I dati riportati sono presi dal sito www.solomodasostenibile.it, di cui è autrice Silvia Gambi, giornalista specializzata in comunicazione e sostenibilità.

Ha insegnato moda sostenibile e comunicazione al Polimoda, all’Università di Firenze, al Master in Sostenibilità dell’Università Bicocca.


member

Emma Maiorino

Contributor TerraBlog

Laureata in design della moda con focus sul design dell’accessorio nel 2019. Nel 2021 si avvicina alle tematiche ecologiche e di sostenibilità e da inizio al profilo IG @emma.vesteverde e bacino di informazioni e suggerimenti relativi alla moda sostenibile. Oggi studente di Master in Fashion Product Sustainability Management.

KEEP CALM & Second Hand September

La rubrica che veste verde di Emma Maiorino @emma.vesteverde Quale...

La rivoluzione del nylon

La rubrica che veste verde di Emma Maiorino @emma.vesteverde Vi...

Leave your comment